di Michele Metta
Ho conosciuto Marilina Veca di recente. Eccellente scrittrice – suoi, per esempio, Kosovo perduto, Scandalo Somalia, Cuore di lupo – e giornalista, mi ha colpito, di lei, il suo mettere da sempre, nel proprio lavoro, lo spendersi con coraggio in prima persona, andando direttamente nei luoghi dove le cose stanno accadendo. Per nulla a caso, ricopre anche il ruolo di Presidente di Rinascere, Onlus dedita all’amicizia tra Italia e Serbia. Le ho posto alcune domande riguardanti proprio quest’ultimo Paese. Eccole.
Credo che le vicende da te narrate a proposito della Serbia siano di quel genere dove, come non mai, metafora e realtà si sovrappongono in maniera – viene da dire – soffocante, ustionante. Smembrare qualcuno per rubarne gli organi è, infatti, tanto la verità di quanto accaduto quanto metafora della volontà di annientare un popolo, una Nazione. Ti chiedo: da chi parte la decisione di macellare la Serbia, e perché?
Come tu dici, lo smembramento dei corpi dei serbi rapiti e scomparsi nel nulla sembra essere metafora dello smembramento di un progetto, di una realtà politica, quella della Jugoslavija prima e della Serbia poi. In Kosovo si è realizzato una sorta di laboratorio della menzogna mediatica, una guerra di parole prima ancora che di armi: i serbi sono stati vittima di una manipolazione dell’opinione pubblica internazionale e l’intervento della NATO nel 1999 ha avuto come effetto (oltre ai morti civili, agli invalidi, alla contaminazione radioattiva del territorio) quello di realizzare la pulizia etnica dei serbi e delle altre minoranze non albanesi creando le condizioni per la nascita di una nuova entità monoetnica all’interno degli esistenti confini della Serbia, con il silenzio/assenso della cosiddetta “comunità internazionale” che hanno consentito che un’organizzazione terroristica, l’UCK, si trasformasse nel soi-disant “esercito per la liberazione del Kosovo”. Nelle istituzioni dell’autoproclamata repubblica del Kosovo hanno notevole spazio e presenza personaggi che dovrebbero rispondere di crimini di guerra anziché stare al potere e coltivare, ora vestendo i grigi abiti dei burocrati, relazioni internazionali con capi di Stato.
So di un ruolo del BND, il servizio segreto tedesco nato, guarda caso, con una fortissima impronta hitleriana. Hai voglia di dire qualcosa in proposito?
Sul ruolo del BND: sono ormai documentati i legami degli ex leader dell’UCK con i servizi segreti americani, tedeschi ed altri. Il cosiddetto “esercito per la liberazione del Kosovo (UCK o KLA) si è presumibilmente formato con l’ausilio dei servizi tedeschi di intelligence (BND Bundesnachrichtendienst) e di forze militari speciali, e fin dal suo apparire, si è posto come strumento di un complessivo disegno globale di controllo sui Balcani, finanziato verosimilmente da soldi di traffici illeciti, primo fra tutti il commercio della droga. Quando iniziò a formarsi l’UCK, a capo del BND si trovava Hanjorg Geider. Una delle sue prime decisioni era stata quella di stabilire un centro per i suoi servizi clandestini a Tirana. Agenti del BND per qualche tempo agirono di concerto con gli operatori dello SHIK il servizio segreto albanese, succeduto a Sigurimi, il servizio segreto comunista dei tempi di Enver Hodza. Allo stesso tempo gli uffici del BND a Roma hanno avuto funzione di intelligence e supporto agli estremisti albanesi rifugiati a Trieste e a Bari. La direzione di BND da parte di Geiger rappresentò fin dal 1996 l’apertura al supporto logistico e addestramento dell’UCK. Le attività occulte del BND erano coerenti con l’intento di Bonn di espandere il proprio Lebensraum, spazio vitale, nei Balcani. Prima dell’inizio della guerra civile in Bosnia, la Germania e il suo ministro degli Esteri Hans Dietrich Genscher avevano attivamente sostenuto la secessione dalla Jugoslavija e fatto pressione sugli alleati occidentali per l’immediato riconoscimento di Slovenia e Croazia. Addestrati a Smirne, in Turchia, e poi in Bosnia, gli uomini dell’UCK hanno avuto il probabile supporto del comitato militare della NATO, divenendo fondamentali per la destabilizzazione della Jugoslavija e per la diffusione delle menzogne mediatiche sulla guerra del Kosovo. Ibrahim Kelmendi, esponente di spicco dell’estremismo albanese, controllava ad inizio guerra una sorta di “fondo monetario” in cui confluivano tutte le donazioni fatte per la diaspora albanese, con somme che si aggiravano sul milione di dollari al mese. La fondamentale rottura con il diritto internazionale (anche da parte dell’Italia che con il governo D’Alema partecipò attivamente ai bombardamenti contro la Serbia) avvenne proprio con i bombardamenti NATO su Belgrado, chiamati dalla maggioranza dei media del mondo, con una tipica operazione di ‘cosmesi linguistica’ “missione umanitaria. I legami tra UCK e gruppi criminali in Albania, Turchia e Unione Europea, sono a conoscenza dei governi occidentali e dei servizi segreti fin dalla metà degli anni ’90.
Quale pena è adeguata, e come ottenerla, per crimini tanto orrendi?
Non c’è pena adeguata per i crimini perpetrati contro il popolo serbo e per le menzogne che ancora li circondano e li offuscano. Già riconoscere quello che è accaduto sarebbe molto. Come dissero i serbi che assistettero all’inizio del Settecento alla morte per impalamento da parte degli albanesi del serbo Ognjen Recanin di Pec, “che si sappia”. Che almeno si sappia cosa è accaduto e sta ancora accadendo in Kosovo. Finché abbiamo a chi raccontare le nostre pene e le nostre sofferenze, c’è ancora speranza per noi: così mi disse un giorno a Vitina, una enclave nel sud del Kosmet, il prete ortodosso Dragan.
Cosa rende il popolo serbo capace di sopravvivere a tutto questo? Il suo essere, come dice il suo ambasciatore nella bellissima prefazione a uno dei tuoi libri, lupo? Il suo forte senso, cioè, di appartenenza e lealtà? Il suo saper tenere tersi i propri occhi mentre trascorre la notte?
Non so se i serbi abbiano capacità di sopravvivere a tutto questo: so che è importante raccontare le loro storie, quella di padre Dragan, che l’UCK ha tentato di uccidere e che è rimasto al suo posto, nella chiesa di Partesh e che mi ha detto: “Ti invidio non per quello che hai ma per quello che puoi dare: dare è più bello che ricevere”. E la storia di Pavle, presidente ad Uroshevac, uscito un giorno di casa per andare a scuola a ritirare le sue cose, i suoi libri, dopo che, per la colpa di essere serbo, era stato licenziato: accompagnato dalla scorta di soldati polacchi, entrato nella scuola, non ne è mai più uscito. Missing. Scomparso. Verosimilmente utilizzato per espianto di organi. E la storia di Ljubisha Petrovic, direttore della piccola scuola di Cernica, un’enclave pericolosa e invivibile. Davanti alla scuola l’UCK gli ha ucciso il figlio di 4 anni. Ljubisha dice che se anche tutti i serbi dovessero andar via dal Kosovo, lui rimarrà, fosse anche l’ultimo serbo rimasto.
Notizia presa dal sito www.Lantidiplomatico.it
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